#2 - Le migrazioni e il trionfo dell'illogica

Autore: Maurizio Pagliassotti
Data: 22-06-2023

Silvia Maraone è un cooperante Acli che lavora in Bosnia, nel campo di Bihac, luogo che entra ed esce dalle cronache dei maggiori media mondiali dipendentemente dalle tragedie che in esso avvengono. Pochi anni fa un incendio disastroso rubò l’attenzione per qualche giorno, poi una inaugurazione in pompa magna e in seguito l’oblio.
Il campo si trova in una posizione strategica, a pochi chilometri dalla Croazia, quindi una delle frontiere esterne della rotta dei Balcani. Silvia Maraone, tra le maggiori conoscitrici a livello mondiale di quel territorio molto complesso che interseca con le recenti vicende legate alle rotte migratorie.
Quando parla di questo fenomeno che lei vede e vive sulla sua pelle usa una locuzione che racconta tutto: “Una storia illogica”.
Per Hegel esiste un’assoluta uguaglianza fra ragione e realtà: ”Ciò che è razionale è reale ciò che è reale è razionale”. Ciò che è, è giusto.
Ma, tutto questo, cozza appunto con un modello economico globalizzato nel quale viviamo tutti e che prevede il contenimento del costo del lavoro, al fine di imprigionare la spinta inflattiva: da sempre la tassa più pesante che colpisce proprio i poveri.
Quindi, ricapitolando: si bloccano i flussi di nuova manodopera al fine di? Non si sa. Questo tipo di realtà ha poco a che fare con la logica economica.
Il costo del lavoro basso, che non significa illegale, permette a moltitudini di esseri umani di avere uno stile di vita dignitoso e in generale alza il livello produttivo di un paese: è l’architrave del libero mercato, che prevede libera circolazione di merci, capitali e forza lavoro. Ma questa, evidentemente, ha altre connotazioni rispetto alle prime due, che risultano sacre mentre la terza ha a che fare con l’eterno mito dell’identità.
Questa costruzione culturale di cui non riusciamo ad alleggerirci, non parliamo di liberazione, che infiniti danni ha procurato, catastrofi da cui l’umanità ciclicamente viene prima attratta e poi duramente colpita.
L’uguaglianza che segue a questo processo senza tempo è sempre una reazione temporanea, che poi decade lentamente e inesorabilmente come un isotopo, lasciando nuovamente lo spazio all’identità e ai suoi velenosi frutti: patria, nazione, etnia. Noi e loro.
Fotografia: Pietro Battisti

Enea, il nostro migrante fondatore

Alain de Benoist è uno scrittore, filosofo e giornalista francese, fondatore del movimento culturale denominato Nouvelle Droite. I suoi interventi fanno sempre molto discutere e recentemente ha rilasciato una illuminante intervista al quotidiano La Stampa in cui, tra le altre cose, sostiene relativamente alle migrazioni: “L’identità di un popolo è la sua storia”. Poi: “La stragrande maggioranza degli europei è ostile alle migrazioni, perché le persone non vogliono sentirsi straniere nel proprio paese, vogliono preservare la propria socievolezza, non vogliono che il loro diritto alla continuità storica sia minato e vogliono mantenere il controllo delle condizioni della propria riproduzione sociale”.
Per chi non lo sapesse de Benoist è uno dei massimi teorici del rosso brunismo, fenomeno post ideologico per eccellenza che fa intersecare opposti estremismi. Un tecnica retorica che permette di esprimersi con manipolazioni che attraggono l’attenzione, e la condivisione, soprattutto delle masse impoverite.
E’ fondato sull’identità. Di questa intervista, in una logica hegeliana, interessa soprattutto la prima asserzione, lapidaria: “L’identità di un popolo è la sua storia”.
Ma cosa è allora l’identità dell’Europa, per non parlare di quella italiana, se non una “ibridazione” – sono sempre parole di de Benoist – in arrivo fin dai tempi dell’Impero Romano. Roma stessa viene fondata da un profugo di guerra, Enea, fuggito da un guerra sanguinosa e perduta. Il mito fondatore di tutta la civiltà romana, e quindi europea, e per molti versi occidentale, ricalca le ragioni per cui oggi un siriano, o chi per esso, muove il primo passo verso l’Europa. Per altro i “tipi umani” sono gli stessi, e così i territori.
Nella città in cui sono nato esiste un quartiere dove oggi sono forti le resistenze verso i nuovi italiani, o europei, che in esso sono giunti da mondi lontani: porta Palazzo, o Aurora. Quartieri così sono presenti in tutte le capitali europee.
La caratteristica del conflitto sociale qui presente, gonfiatissimo dai mezzi di comunicazione che formano la percezione popolare esclusivamente su un piano emotivo, è molto semplice: è uguale a quella degli anni 50 e 60 quando enormi masse di meridionali qui giunsero per lavorare nell’industria dell’automobile di massa. E ancor prima, è uguale alle tensioni di fine Ottocento, tempi in cui i due quartieri furono fondati, quando qui giunsero masse di provinciali in arrivo dalle campagne piemontesi, che molto scandalizzarono i buoni torinesi doc dato che parlavano un dialetto assai diverso e avevano usi e costumi diversi.
Tutti quanti, provinciali e meridionali hanno costruito con il loro duro lavoro non solo l’Italia da un punto di vista economico sociale, ma soprattutto l’enorme rendita che oggi permette a masse sterminate di giovani di sopravvivere in un tempo dove il lavoro tende a decadere: almeno quello che non piace più fare.
Nel film “LA RICOTTA”, diretto da P.P.Pasolini, fa parlare per sé Orson Wells, a cui fa dire cosa pensa della società italiana: “il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa”. 

Vogliamo ma non vogliamo lavoratori

Ed è così. Si susseguono gli appelli di Confindustria all’apertura delle frontiere perché la mancanza di forza lavoro – non c’è nessuna vergogna ad essere tale, il lavoro è l’unico strumento che l’umanità si è data per migliorare la propria condizione, ben più del capitale – possa entrare in Italia. Idem fanno gli industriali tedeschi.
Ma noi qui siamo nel mondo dell’illogica identitaria, in cui in un continente che ha fatto della “ibridazione” il suo tratto caratteristico, lo si nega, in nome di una storia inesistente sotto ogni punto di vista.
Le parole di Pasolini ovviamente possono essere allargate all’Europa intera, spinta da una furia cromatica che travolge perfino l’utilità finale. Perché alla fine di questo si parla, quando si affronta il grande tema della migrazione. Il problema, la struttura, insormontabile è cromatico: sono neri. Per questo la resistenza è più forte, più radicata, più estrema.
Tutto il resto, cioè il concetto di “identità”, è una sovrastruttura ben infiocchettata che serve a carpire consensi laddove è presente la paura per un mondo diventato evidentemente incomprensibile dati gli strumenti di interpretazione che vengono forniti oggi da sistemi educativi sempre più compressi e ridicolizzati.
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