#10 - Dispacci dalla frontiera: la scuola rimane un bel posto

Autore: Maurizio Pagliassotti
Data: 05-03-2024

L’incontro con gli studenti del Liceo Giordano Bruno di Arzano – Grumo Nevano in occasione del ricordo della strage di Cutro mi ha fatto molto riflettere. Sono stato invitato a presentare il mio libro lo scorso 26 febbraio.

Nella sala del Cinema Sole di Grumo Nevano sono assiepati oltre duecento tra ragazze e ragazzi che con attenzione seguono le parole dei vari relatori: l’intervento brillante del sindaco di Frattamaggiore, Marco Antonio del Prete, le parole ben ponderate della dirigente scolastica Maria Luisa Buono, l’inquadramento sistemico della docente presso l’Università degli stranieri di Perugia, Angela Sagnella, precedono il mio intervento.

Arzano e Grumo Nevano sono due grossi comuni che si trovano  a nord di Napoli, terre popolose e fertili che fronteggiano il torreggiante Vesuvio: lungo la strada che porta al cinema, presso una rotonda, vedo alcuni ragazzi africani che aspettano il caporale di giornata: li porterà da qualche parte, magari in un cantiere o in un campo a lavorare.
Case su case si susseguono, poi panorami mozzafiato, agrumeti, campi coltivati.
Non sono tanti i lavoratori africani in attesa, poco più di una decina: scene che ho visto molte volte su al nord, forse solo un po’ meno plateali, sicuramente più ipocrite. Qui si mettono per strada, al nord si nascondono in qualche capannone.
Mentre i co-relatori parlano mi domando quanto studenti e studentesse in platea siano “dentro” a quanto diciamo sul palco, quanto le nostre parole raggiungano. 

Accanto al palco si alza una imponente pala, opera dell’artista nonché docente Alfonso Ruggeri: si intitola “Luce dagli abissi” e in essa si vedono dei corpi che affondano nel mare, mani tese e aperte che ancora tendono verso la superficie. L’opera è in sé d’impatto perché ha la forza di affrontare senza “comode” astrazioni, per altro di moda da tempo immemore e caratterizzanti il solco dell’arte mondiale, la durezza di quanto avvenuto.
Un’opera “ex abrupto” come quanto avvenuto sulla spiaggia di Cutro: esattamente.
E di quanto avviene ieri, oggi e domani da qualche parte, ovunque vi sia una frontiera.

Così fa anche il corto del regista Aldo Rapé, “Cuore nero”, ove si narra la brutale storia di un naufragio in mare in cui un pescatore trova estrema difficoltà a salvare una giovane donna e i suoi compagni di disavventura, a causa delle condizioni ambientali, mare aperto, nonché della sua forma mentis.
Il film è del 2012, ma si può considerare anch’esso senza tempo, come giustamente dice Rapé al termine del suo intervento: seguito, noto, come molta attenzione dagli studenti.
Entrambe le opere mettono bene in primo piano la gravità del momento storico e lo fanno in forma diretta, esulando da un architrave comunicativo odierno: la figura dell’eroe.
Nel corto di Aldo Rapè il pescatore che salva i migranti naufraghi è sì tale, ma con estrema riluttanza. Una figura quindi molto potente e molto coraggiosa.
L’eroe-salvatore è ontologicamente buono, mentre il suo non è tale: è cupo e arrabbiato per la sua condizione.

E’ sempre difficile comprendere i sentimenti che attraversano l’uditorio quando ci si trova seduti su un palco, in attesa del proprio intervento.
Ma mentre i relatori e relatrici raccontano penso che oggi gli eroi siano gli insegnanti, nonché i dirigenti scolastici, delle scuole italiane: sono loro davvero l’ultima trincea prima della irreparabile involuzione, al definitivo collasso dei livelli minimi di civiltà.
La scuola è la nostra linea del Piave, dopo 106 anni. 

Ci vuole coraggio e capacità di lettura culturale penso, mentre osservo ragazze e ragazzi ascoltare le nostre parole, a proporre un incontro con questi contenuti oggi, in cui la figura del “migrante” ha assunto i contorni di una normalità priva di etica, perché ci siamo abituati a vederli alle rotonde delle strade in attesa del caporale, rinchiusi per la loro condizione dentro carceri speciali, naufraghi sulle Alpi come in mare aperto.

I migranti sono, per quanto mi riguarda, il corpo su cui si sperimenta il livello di repressione sociale, culturale e, non meno importante, fisico.
Esso, ed essa, è la brutale abitudine al culto della sopraffazione laddove vi è una complessità da gestire: vale per loro, come per tutte le altre minoranze sociali. Inciso: per quanto mi riguarda non esiste alcuna differenza tra diritti sociali e civili.

La scuola quindi come frontiera interna, una sineddoche: un luogo dove la cultura può fare leva. Di più, l’unico posto dove la cultura può fare qualcosa. A maggior ragione qui dove mi trovo, periferia napoletana, luoghi di cui tutto ignoro ma che sono il cuore di un pregiudizio negativo assai radicato: inutile sorvolare. Le frontiere come elemento stratificato, quindi.
Non i premi letterari, non i circoli culturali, non le presentazioni nelle librerie, per quanto mi riguarda hanno la potenza di questo cinema ricolmo degli studenti del liceo Giordano Bruno: i posti della bolla mi fanno sopravvivere come scrittore, questa è una frontiera interna dove invece vive forte il senso profondo della letteratura impegnata.
Quanto questa debba essere tale, si è domandato un paio di anni Walter Siti sulle pagine di un quotidiano nazionale, alzando un vespaio.

E’ questo il tempo del disimpegno totale portato a valore, una deriva culturale che taluni fanno perfino appoggiare sulle famose parole di Italo Calvino che parlò di leggerezza. Altri ancora, per dare un senso letterario al disimpegno, tirano in ballo “Il fanciullino” di Giovanni Pascoli: sono esempi piccoli che indubbiamente lasciano il tempo che trovano, però però…
Sempre dubitare quando si sentono citazioni, a maggior ragione quando sono fatte per mistificare, piegandole alle nostre misere vite, stili e prassi che portano in primo piano l’esclusivo principio del piacere personale.
Oltre il quale tutto è pesantezza, noia, inutilità.
Per fortuna resistono ancora piccoli e tenaci gruppi di resistenti culturali.
La scuola è l’unico posto dove chi fa cultura può parlare a chi non ha già un giudizio definitivo sulle cose del mondo, è il punto più alto della democrazia, quella che rimane, occidentale.

Forse è una proiezione dei miei desideri, eppure mi è parso che ragazzi e ragazze abbiano colto alcuni aspetti essenziali dei nostri discorsi, mentre sono certo sapessero molto poco in generale della condizione migratoria odierna. Ma sono altrettanto sicuro che le mie parole, e quelle delle relatrici e relatori che erano con me abbiano raggiunto anche molti a cui non interessa nulla, oppure hanno idee nettamente diverse dalle mie.
In tal senso non posso che essere ancora più grato a chi ha pensato e organizzato questo incontro.
Parlare a chi la pensa diversamente, parlare a chi non pensa nulla, non ha voglia, ha altre cose per la  testa: cosa c’è di più alto e desiderabile per chiunque faccia un lavoro intellettuale?

Al termine dell’incontro un giovane mi ha raggiunto e mi ha fatto qualche acuta domanda, il suo nome è Manuele: gli ho regalato una piccola vela Einaudi che avevo nello zaino.

Era sinceramente colpito da quanto aveva ascoltato, e io ero sinceramente stupito del suo interesse.

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