#5 - Confini e polvere

Autore: Maurizio Pagliassotti
Data: 11-08-2023

Molti anni fa attraversai a piedi il confine forse più invalicabile della storia europea, quello che per secoli definì il limes settentrionale dell’Impero Romano: un confine che segnava il solco che divideva la civiltà dalla barbarie.
Ero un semplice turista, uno dei tanti.

Nell’estate del 82 dC il governatore Romano Gneo Giulio Agricola mise insieme un esercito di legionari e mosse alla volta della conquista dell’intera Britannia: il resto è storia nota, tutta la campagna è descritta da Tacito.
Di quella battaglia che i romani condussero contro i barbari di Calgaco, discutiamo ancora oggi: la celebre frase “hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace” è la riproposizione di quanto disse: “E dove producono desolazione dicono che quella è pace”.
Seguì, come noto, la costruzione del ciclopico vallo di Adriano che affacciava sulla ignota Caledonia: il vallo è simbolo tra i simboli che ancora oggi guardiamo con un sentimento mescolante ammirazione, disgusto e paura.
Fare quel passo lungo il vallo di Adriano mette in diretta relazione con la celebre frase di Friedrich Nietzche, secondo cui la storia altro non è che una sorta di meccanismo ridondante che tende a ripetersi all’infinito.

Quando ci si occupa di migrazioni – che non significa espressamente attraversamento di un confine – si incorre spesso in luoghi che erano punti di mondo invalicabili, presidiati da forze armate, fortificate da muri e altri artifici umani.
Probabile che ognuno di noi, ogni giorno, valichi senza nemmeno saperlo qualche punto di mondo che venne considerato insuperabile, una porta che divideva la barbarie dalla civiltà.
Si potrebbe obiettare che tali linee invalicabili furono alzate non contro le migrazioni bensì per fermare gli eserciti: ma questo, a maggior ragione, evidenzia quanto il meccanismo sia disfunzionale, irrazionale, e nonostante ciò inevitabile.
Dalla grande muraglia cinese, al vallo di Adriano, al forte di Fenestrelle in Piemonte: il globo terraqueo è disseminato di cadaveri di mattoni, pietre, lance puntate, cannoni che, paradosso, oggi sono oggetto di attrazione turistica per le moltitudini globali che per divertimento girano il mondo.
Il tentativo di fermare qualsiasi movimento umano, a maggior ragione quando è pacifico come nel caso delle migrazioni per motivi economici, appare semplicemente assurdo.
Come racconta l’illuminante libro pubblicato da Bollati Boringhieri “Maledetti confini” di James Crawford, le storie delle linee che l’essere umano ha tracciato prima sulla carta e poi sulla terra hanno sempre lo stesso esito: sono state spazzate via.
Eppure questa ossessione, stretta parente della proprietà privata, rimane. 

Scrive James Crawford: “L’ossessione per le linee di confine, per le frontiere e le delimitazioni ha regolato la promessa della separazione della libertà dalla schiavitù nel Vecchio Mondo, ma solo per i bianchi e cristiani anglosassoni”.
Il confine quindi non solo come elemento geografico, ma ideologico, tra visioni differenti: condizione che non esclude la prima. Si pensi al confine della guerra civile statunitense o ai grandi blocchi del mondo novecentesco uscito dal secondo conflitto mondiale.
Eppure, anche di quelle grandi separazioni non rimane più nulla. E non rimarrà nulla di quelle che oggi appaiono indistruttibili.
Spariranno gli Stati Uniti che non vogliono i latinos, sparirà l’Italia e l’Unione Europea che costruisce muri fisici e burocratici.
Tutto ciò che oggi è indistruttibile altro non sarà che polvere.

Ancora una volta quando i processi di separazione vengono osservati con le lente della storia appaiono per quello che sono: uno dei molti tentativi falliti dell’essere umano di piegare ad un principio astratto lo stati di natura che, apparentemente, punisce lo stesso concetto di confine.
Le comunità biologiche, qualunque esse siano, se non sono soggette ad una alta variabilità,  – dovuta a migrazioni/spostamenti di materiale genetico – diventano materialmente più deboli e se sottoposte a stress ambientali tendono a collassare.
Tutto questo è noto.
Eppure ancora oggi, quando vediamo un uomo con la pelle nera, o un asiatico, raccogliere un grappolo d’uva o potare una vigna non possiamo che provare una sorta di stupore – si pensi agli infiniti reportage fotografici che dovrebbero raccontare questa novità affinché sia accettata – oppure nella maggior parte dei casi una latente paura che sfocia nella resistenza.
Condizione che vale per qualsiasi contesto.
Se assurdo è il processo mentale che porta all’idea che possano esistere confini che resistono all’erosione della logica e del tempo, parimenti assurda è l’idea che si possa superare la paura/repulsione del diverso che si affaccia all’interno di un nuovo mondo.
La natura di questo è solo ed unico esempio.
I faggi hanno una produzione di fogliame fuori scala, ce ne accorgiamo in autunno quando cerchiamo i funghi camminiamo affondando fino ai ginocchi: i botanici hanno capito che le foglie di questa latifoglia tendono ad essere acide e quindi a creare un humus adatto solo alla nascita e colonizzazione solo di altri faggi.
I faggi sono nazionalisti, identitari.
Le cellule sono costantemente sotto autosorveglianza e l’intero sistema biologico umano, e non solo, controlla in ogni momento quanto si avvicina dall’esterno, attivando il sistema immunitario quando giunge qualcosa di diverso. 

“Si tratta di una violazione di confine nella scala dimensionale più piccola esistente”, scrive Crawford.
Se la paura – repulsione esiste a livello cellulare, come su scala globale, essa allora è ontologicamente giusta. O quanto meno inevitabile. La differenza tra giusto e inevitabile è oggetto di discussione da tempo immemore.

Ma, a questo punto del discorso, l’emigrazione è un fenomeno naturale che reca in sé quale sentimento?

Si sta facendo sempre più largo la relazione tra migrazione e felicità: condizione che vagamente confonde il migrante con il turista. Ma oggi, come ieri, come sempre, gli esseri umani che partono per un nuovo inizio non sono personaggi alla Jack Keruac e il mondo anarco hippy, bensì è decisamente più pervaso dalla disperazione di Adamo ed Eva cacciati dal paradiso biblico, o Enea, profugo di guerra con il vecchio padre Anchise caricato sulle spalle, progenitore secondo il mito di Romolo e Remo.
La migrazione è sempre, o quasi, un lutto, una fuga, una sconfitta.
L’identità tende quindi a decomporsi e ricomporsi, sulla base di un lutto: condizione questa che prevederebbe sul piano teorico una uguaglianza assoluta, non solo di classe come storicamente intesa.
Esperimenti vennero fatti nei primi anni sovietici, con esiti vagamente catastrofici. Il partito Stato doveva essere l’unica identità in cui tutte le differenze biologiche, culturali, economiche venivano fuse.
Paradossalmente il mercato totale che ha vinto nel 1991 punta alla stessa condizione di uguaglianza: quelli volevano solo proletari tutti uguali e senza desideri, oggi vogliamo tutti consumatori con gli stessi desideri.
Quelli volevano omologare, oggi si vuole amalgamare.
Motore del mercato in chiave marxiana, a prescindere da ogni ideologia e ogni tempo, è notoriamente il lavoro. Il lavoro costruisce e unisce ben prima del capitale o del diritto.

E’ di questi giorni la ricorrenza della strage di Marcinelle, quando morirono in una miniera di carbone belga 231 minatori di cui 136 italiani. Nel tempo dell’Unione Europea quale unione monetaria, principalmente, pochi ricordano che ben prima delle merci e dei capitali l’Europa ha riconosciuto il diritto dei lavoratori a muoversi al suo interno.
La migrazione economica quale elemento fondante della nostra storia, condizione questa che se osservata oggi mette in evidenza un lato oscuro di quel diritto: lo sfruttamento del lavoro migrante, fino alla morte, come nel caso di Marcinelle.

Il benessere odierno dell’Unione Europea – non equamente distribuito per altro, si pensi alla Grecia – che ha abolito le barriere e fa del libero movimento il suo architrave ideologico, è fondato sullo sfruttamento?
Si pensi a film neorealisti come “Il maestro di Vigevano”, Il boom, la Cuccagna, che raccontano l’Italia di quegli anni: sì era sfruttamento. Ma non solo, era autosfruttamento, selvaggio.
Solo lo sfruttamento del lavoro porta allo stato di diritto?
Pare di sì.
Di più.
Il diritto come fase originaria provoca esclusione, frontiere chiuse, identità?
Pare di sì.
Spesso si dice che i fenomeni migratori sono complessi: l’aggettivo è ormai abusato.
I fenomeni migratori, le frontiere, il lavoro, e il diritto raccontano la contraddittorietà più che la complessità: l’impossibilità di dividere il bene e il male, persino l’impossibilità di definirli chiaramente.

Campo minato Bosnia Croazia
Campo minato al confine tra Bosnia e Croazia - Ph Maurizio Pagliassotti
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