#6 - Con il lavoro usa e getta nessuna integrazione è possibile

Autore: Maurizio Pagliassotti
Data: 09-10-2023

Torino all’inizio del Novecento aveva 332.658 abitanti.
Dopo cinquant’anni si passava a 720.729, per poi giungere nel 2001 a 899.544.
Il 1974 è stato l’anno dove Torino ha raggiunto il record con 1.202.846 di residenti.

Gli ultimi dati pongono l’asticella sotto quota 850.000.
Questi numeri descrivono bene il processo migratorio italiano, interno. Dapprima furono i piemontesi in arrivo dalle cittadine poco distanti, tra la fine dell’ottocento e la Seconda Guerra Mondiale e poi, tra il 1950 la fine degli anni settanta l’enorme onda di meridionali, e non solo, che portavano forza lavoro alla fabbrica delle fabbriche, la Fiat.
In poco meno di quarant’anni la popolazione di questa città è raddoppiata: e non si trattava di arrivi meno alieni di quanto oggi possano essere uomini e donne in arrivo da paesi lontani.

Ancora nella mia infanzia, anni Ottanta, si potevano sentire voci ben scandite, perfino nelle televisioni private durante trasmissioni che raggiungevano un pubblico non indifferente, uomini che che denunciavano “l’invasione, prima o poi saranno più loro di noi, ci portano via il lavoro, non si lavano, rubano, fanno solo casino e urlano, mettono i pomodori nel bidet, sono mafiosi”.
Il cartello “non si affittano case ai meridionali” altro non è che la trasposizione ante litteram della odierna difficoltà che chi arriva da lontano incrocia quando cerca una casa dove vivere.

Quali sono gli elementi di diversità tra oggi e allora?

Sicuramente non il lavoro.
Al tempo la Fiat assorbiva, nello sfruttamento, decine di migliaia di operai.
Chiuso, purtroppo per chi scrive, il tempo dell’industria, oggi quel passaggio è coperto dal settore dei servizi. 
Le città trasformate in parco giochi per ricchi viaggiatori altro non sono che le mega fabbriche di un tempo che cercano spasmodicamente personale. Le cucine dello sterminato numero di ristoranti di Firenze, Venezia, Milano, Torino solo in parte, sono una delle varie catene di montaggio post-moderne.

In tal senso viene da porsi la domanda spinosa: integra maggiormente lo sfruttamento capitalista o il diritto?

Ieri era l’operaio massa, che oggi ha una casa di proprietà e mantiene i nipoti, domani sarà il cameriere bengalese o il bracciante africano?
Ma questa condizione che afferisce al moto perpetuo e scivola all’interno del male – non integralmente, lo sfruttamento come elemento di integrazione – manca di diversi elementi affinché divenga fruttuosa. I due esempi, operaio massa e lavoratore migrante, non sono parte della stessa prospettiva.
I secondi rimangono nomadi, involuti, sottoproletari: oppure semplicemente scompaiono e vengono sostituiti.
Come un amore di cui ci si stufa e si butta via.

Questa condizione è data sicuramente all’assenza, dovuta al suicidio post 1989, di corpi intermedi, in primis partiti e sindacati, elementi in grado di organizzare i lavoratori.
In secondo luogo manca la volontà dello Stato di “fermare” queste persone in Italia. Affinché esse, come accade, siano eternamente migranti, anche dopo anni. Una condizione perpetua, non solo lessicale, ma di classe, valoriale.
In uno strampalato modello che confonde cosmopolitismo e internazionalismo, due elementi della storia opposti.

Oggi ci sono i migranti, dunque. La loro caratteristica è il moto, il nomadismo, insomma se ne devono andare affinché il loro lavoro e il loro contributo economico sociale sia bellamente incamerato da chi resta, cioè gli autoctoni che li “ospitano”: una teorizzazione del compianto sociologo Luciano Gallino già molti anni fa indicava in questo elemento la caratteristica del lavoro fluido o, appunto nomade, nel quale l’elemento umano è usa e getta.
Che poi oggi in questo capitalismo irrazionale tutto è usa e getta: dalla carta igienica ai sentimenti.
In tal senso il furto è incentivato dallo Stato portato a sistema, con cui si finanziano le pensioni, la sanità, lo stato sociale. Le condizioni di vita di un lavoratore nomade, o migrante, rendono impossibile la capacità di radicamento alla nazione: la volontà è diversa, fondata sullo sfruttamento temporaneo in grado di “pagare le pensioni degli italiani”, come bellamente dichiarato ovunque.
Ma non è sempre stato così e gli esempi di cosa si potrebbe fare se si volesse costruire un’Italia, e un’Europa, afferente ai sotterrati principi di Ventotene, si sprecano. Sappiamo esattamente cosa fare e come finanziare tutto. Non lo vogliamo.

Il piano case Fanfani, o Ina-Casa: chi ricorda cosa fu? Un ciclopico investimento volto non solo a ricostruire ciò che era stato demolito dal conflitto, ma anche a radicare le masse migranti di lavoratori, in particolare dal sud verso il nord industrializzato.
L’esatto opposto dell’ideologia usa e getta della forza lavoro attuale.
Nei primi sette anni di vita verranno investiti complessivamente 334 miliardi di lire per la costruzione di 735.000 vani, corrispondenti a 147.000 alloggi. Alla fine dei quattordici anni di durata del piano, i vani realizzati saranno in totale circa 2.000.000, per un complesso di 355.000 alloggi. Il Piano Ina-Casa alla sua scadenza avrà aperto 20.000 cantieri.
Sono sufficienti questi dati per comprendere come Torino, o altre città del nord, siano riuscite a sostenere ritmi di crescita pari a 100.000 nuovi abitanti a decennio, nel dopoguerra.

Che ci sia uno spazio adeguato, perfino senza costruire nuove case, in cui integrare economicamente e socialmente i lavoratori migranti, loro malgrado, è chiaramente comprensibile nelle vie pedonali di qualsiasi centro storico di una città italiana che sta tentando la grande trasformazione fondata sul turismo.
A Firenze, Venezia, Milano, in parte anche Torino e altre città è possibile camminare per chilometri senza sentire una parola in italiano. La sostituzione etnica c’è stata, l’invasione è avvenuta, chi viveva nei centri storici è stato costretto ad abbandonare il campo e a spostarsi un po’ più in là.

In questo senso quindi risulta molto netta la differenza valoriale, non in senso greco, tra rendita e forza lavoro.

Photo by Julie Ricard on Unsplash
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