#1 - La frontiera interna
Autore: Maurizio Pagliassotti
Data: 14-04-2023
Da molti anni mi muovo lungo i confini che separano gli Stati, e nel tempo ho capito quanto essi siano diventati un simbolo divisivo in un tempo che teorizza la realtà liquida in nome dell’economia di mercato.
In particolare le cose non riconoscono i confini, le merci a cui ogni diritto è doverosamente riconosciuto. Libere, si muovono da un continente all’altro in virtù di un diritto che agli esseri umani non è riconosciuto.
I confini quindi intesi come “frontiere”: termine che riporta alla parola “fronte”, molto meno rassicurante perché riconducibile all’immaginario bellico che solo recentemente, e in maniera non ancora del tutto chiara ai più, si è affacciato nella nostra realtà quotidiana: sebbene sia ancora lontana, sebbene i tentativi di rimuoverla siano meccanici, la guerra è appena dietro la curva.
In ogni caso la frontiera è quel luogo totem, oggetto di mille narrazioni, diventata essa stessa ideologia: contro la frontiera, per le frontiera, legata al binomio sì – no, è sempre più spesso associata al fenomeno della migrazione.
Quando si parla di “migrazione” subito gli animi si accendono e il manicheismo diventa il motore unico degli schieramenti, soprattutto laddove si parla di questo fenomeno e non si vive questo fenomeno. Robert Musil, ne “L’uomo senza qualità” definisce così i simposi dove si discute di alte concezioni morali, ideologie, pareri e opinioni molto spesso altissime, che oggi potremmo definire “talk show” oppure “think tank”: “pollai”.
Quando trovai questa definizione, ne rimasi molto colpito: “pollaio”.
Anche perché io, per ragioni professionali, frequento molto questi “pollai”.
Questo sono, del resto, soprattutto quelli televisivi, nella loro accezione più ironica, forse ridicola.
Nei pollai di frontiere si discute molto e con passione: quelle dell’Unione Europea, degli Stati Uniti con il Messico, Croazia – Bosnia, Turchia – Grecia, Serbia – Ungheria. Nella narrazione che costruisce la percezione diffusa delle masse queste sono le principali frontiere “esterne”: sempre evocative e ontologicamente divisive. Qui la vita di milioni di esseri umani prende forme che vengono plasmate dall’unica legge riconosciuta da tutti, quella della violenza, qualcosa che va al di là della forza e regola i conti con precisione geometrica.
La storia è lunga e molto raccontata, forse inflazionata, sicuramente venduta.
Poi, per casi fortuiti, sono uscito dai vari pollai teorico filosofici e sono entrato nel mondo reale.
Che esperienza incredibile, il mondo reale.
Quello fatto di esseri umani, intendo, che fanno tanto, e poco tempo hanno per dedicarsi ai cieli dell’astrazione simbolica a cui così tanto un po’ tutti ci appassioniamo.
Prima nel Saluzzese, dove migliaia di esseri umani lavorano in qualità di braccianti che raccolgono la frutta che mangiamo tutti i giorni, e poi nelle Langhe, “terra baciata da Dio” come da definizione di Alberto Grasso che molto mi ha colpito quando l’ho sentita.
Accademia della Vigna mi dà la possibilità di vivere, a me che ho sempre frequentato le frontiere esterne, in un altro luogo: la frontiera interna.
Ho fatto una breve ricerca e ho trovato questo libro che ne parla: La frontiera interna. Il problema dell’altro dal fascismo alle migrazioni internazionali, edizioni Escalapia, di Pierluigi Cervelli.
Molto altro non c’è.
Perché “Frontiera interna”, quindi?
Essa è un territorio inesplorato o quasi, dove la vita di moltitudini di esseri umani si sviluppa come una fune d’acciaio, ma invisibile, dove tutto o quasi è un continuo “dentro o fuori”. Nel nulla mediatico si allargano immensi sentieri percorsi da moltitudini di fantasmi.
Solo quando sei in prossimità di questa frontiera ti rendi conto di quanto il crinale che separa l’essere vivi o morti, dentro o fuori dalla società, integrati o disintegrati non cessi quando si superano in qualche modo i confini che separano gli Stati, ed entri dentro un Paese che, più o meno, ti accoglie e inizia a trattarti da cittadino parte della comunità, sempre più o meno.
Questo blog da me curato, aperto a collaborazioni, tratterà del reame interno su cui si snodano i percorsi di vita di chi arriva da lontano. Del loro ecosistema, le loro relazioni, in definitiva della loro vita reale.
Quella oggetto di distratto interesse nei pollai.
In questo mondo vi è una perdita di epica sostanziosa.
Decade l’aspetto omerico, romanzesco, avventuroso: subentra la miseria della vita quotidiana, l’invisibile eroicità che incide costruisce o demolisce la vita di più o meno tutti.
La lotta con la burocrazia, le leggi volutamente incomprensibili, la casa introvabile, la bici che cigola e soprattutto la ricerca spasmodica del lavoro come unica terra fertile dove gettare le radici della vita dignitosa e libera.
Queste, e molte altre sono frontiere interne che gli uomini e le donne in arrivo da lontano devono fronteggiare e superare ogni giorno, alla ricerca perpetua di nuova crescita, nuovo benessere, nuova tranquillità.
Ho visto dei giovani e meno giovani uomini di origine africana, seguire delle lezioni di potatura e nei loro occhi ho notato la stessa ferrea determinazione degli uomini che ho incontrato lungo le frontiere esterne, dove erano bloccati.
Sono occhi affamati, il loro sguardo è concentrato, la loro volontà è la stessa.
Potare una vigna è meno rischioso del viaggio che li ha portati in Italia, ma forse solo in parte.
Se non imparano bene sono fuori. E non è un gioco.
La frontiera interna è l’unico luogo dove si può iniziare un percorso di crescita ed emancipazione e forse di felicità. Oppure no.
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